UNA VITA TRA I COLORI
Al caldo estivo si aggiunge quello del forno acceso dove cuociono gli ultimi pannelli realizzati per la mostra di Faenza. Nel minuscolo laboratorio di Francesco Raimondi neppure il condizionatore al massimo della potenza regala un po’ di sollievo. Decidiamo di ripararci sotto i grandi ombrelloni di un bar, all’ingresso di Vietri da nord, lungo l’antica via decumana che attraversa l’intero centro e che, in epoche passate, ne fece una specie di Samarcanda mediterranea, dove ancora alla fine degli anni Quaranta si poteva trovare di tutto: dai rosoli della fabbrica Ferrigno, alle carrube per i cavalli, alle grandi scatole di tonno sott’olio provenienti dalla Sicilia. C’erano già i negozi che offrivano ceramiche ai turisti, ma erano pochi, non come ora che, a vista d’occhio, sembrano non interrompersi mai.
Mentre il sole dissolve inesorabilmente l’ombra delle coperture del bar, Francesco parla del nonno materno che aveva sempre sostenuto ed incoraggiato la passione del nipote per la ceramica. Una foto lo ritrae con lunghi baffi neri e in divisa da portabagagli davanti alla stazione ferroviaria di “Vietri sul Mare-Amalfi”, quando, reduce della prima guerra mondiale, aveva dismesso la divisa di sottoufficiale per indossare quella delle ferrovie. Erano i tempi in cui i viaggiatori provenienti da Nord scendevano a Vietri e per poter proseguire verso Amalfi si facevano trasportare da una delle tante carrozzelle ferme ad aspettarli, una di fianco all’altra, giù al “Forte”.
Alla memoria del nonno Francesco associa quella del padre Generoso, disegnatore e maestro d’ascia di barche nei cantieri che sorgevano a Marina. La spiaggia delle navi ora è fitta di ombrelloni. Del passato non rimane più alcuna traccia. Di tanto in tanto riaffiora qualche scarto di fornace usato per la pesca dei polpi o variopinti frammenti di riggiole dai bordi consumati dalla risacca. Dei pezzi che dovranno pur essere caduti dalle traballanti passerelle che collegavano le navi alla spiaggia, a memoria, il mare non ha mai restituito nulla. Le stive delle imbarcazioni che partivano per la Sicilia cariche di ceramiche avrebbero potuto essere colme della stoviglieria decorata da Francesco in tutti gli anni da lui trascorsi nelle faenzere vietresi, calcolando, come lui ricordava, che riusciva a decorare, tra vasellame e piatti, qualcosa come 250 pezzi al giorno. Lo racconta con la stessa leggerezza delle sue pennellate, senza mai accennare a quanta fatica deve pur essergli costato un percorso difficile e dall’avvenire sempre incerto, nel quale tutto dipendeva solo da se stesso e dall’abilità delle sue mani.
Dal padre aveva appreso il rigore, la precisione, l’armonia delle linee, tutti elementi che distinguono uno scafo adatto ad affrontare un mare mutabile in una rada aperta a tutti i venti, come è quella di Vietri e che, sicuramente, hanno influenzato il suo mestiere di ceramista, per il quale era predestinato. Lo stesso Francesco racconta che, già dai primi anni delle elementari, all’uscita della scuola andava a spiare i decoratori della vecchia faenzera di via Scialli. Non c’era vetrina di ceramica che non l’attirasse o decoro che lui non riproducesse su un minuscolo block notes che portava con sé. Lo zio Antonio, ceramista anche lui, si accorse subito della predisposizione del nipote e già in quegli anni lo introdusse saltuariamente in un piccolo laboratorio dove cominciò ad esercitarsi con i pennelli intinti nelle scodelle dei colori.
Anche la madre lo conduceva con sé ad acquistare ceramiche dai Fratelli Procida. Francesco rimase colpito dallo spesso strato di smalto vetroso, mai visto in nessun’altro laboratorio, che ricopriva le figure, gli animali e gli oggetti. Ancora oggi si chiede perché mai la madre, che non era certo un’esperta, acquistasse unicamente quelle ceramiche considerate allora innovative e pertanto non ancora popolari. Quando Francesco terminò le scuole medie cominciò a frequentare la storica ceramica di Don Ciccio Avallone dove aveva lavorato, tra gli altri, un giovane Guido Gambone. Della fabbrica ricorda la “stanza del tesoro” zeppa di pezzi di ceramica raccolti e conservati come reliquie, i servizi da caffè da lui decorati e i primi soldi guadagnati.
Rimase in questa faenzera dal 1976 al 1978, per poi trascorrere altri due anni alla Ceramica Solimene, ma non come decoratore. Tuttavia, nella famosa fabbrica progettata da Paolo Soleri Francesco incontrò eccellenti “pittori di faenza” quali Domenico Palumbo, Giuseppe Avallone e grazie alla loro disponibilità imparò molti segreti della decorazione ceramica. Dal 1981 al 1991 Francesco lavorò da “Nando”, un piccolo laboratorio sulla costiera amalfitana, diventando padrone del mestiere e manifestando il proprio talento.
I suoi decori vennero notati da Raffaele Pinto, proprietario della omonima secolare faenzera, che ne intuì le potenzialità: “se il ragazzo non si guasterà potrà diventare l’erede di Giovannino Carrano”. Un giorno, mentre Francesco era intento a illustrare pannelli per la scenografia di una locale festa dell’Unità, Benvenuto Apicella lo invitò a visitare la fabbrica Pinto nella quale lui lavorava. Qui incontrò Giovannino Carrano considerato il più grande decoratore che Vietri abbia mai avuto. Vederlo all’opera fu una folgorazione e quando dopo poco, siamo nel 1992, Francesco sarà assunto, non impiegherà molto a perfezionarsi in quello “stile Vietri” tramandato dal maestro, che consisteva in pennellate veloci date senza ripensamenti, diversità di pressione esercitata sui pennelli come fossero strumenti musicali, accostamenti di colori molto vivaci.
Con la scomparsa di Giovannino Francesco diventò per Raffaele Pinto il punto di riferimento per tutte le problematiche legate alla decorazione. L’intesa fra i due fu perfetta. Pinto dialogava con i suoi decoratori, suggerendo soluzioni per ridurre il numero delle pennellate o la quantità delle superfici colorate. Ma la fabbrica Pinto, dove si producevano i “pavimenti da sogno” non era solo il punto di riferimento della ceramica tradizionale, era anche il luogo dove venivano accolti ceramisti ed artisti in transito, spesso di fama internazionale: Irene Kowaliska e Margarethe Hannash negli anni Trenta e negli anni Sessanta, Amerigo Tot e Giuseppe Capogrossi agli inizi degli anni Cinquanta, Leena Lehto e Alik Cavalieri a metà degli anni Sessanta.
L’accoglienza da parte delle faenzere è una tradizione che a Vietri si tramanda da secoli. Si spiega anche con il bisogno di rinnovarsi, vitale per un centro ceramico che deve la sua fama anche alla capacità dei suoi prodotti di attirare viaggiatori dai gusti differenti e mutevoli. Raccontava Vincenzo Solimene che agli artisti che si fermavano nelle faenzere, anche solo per saggiare le proprie capacità, non veniva chiesto neppure il nome. Nel 1999 alla morte di Raffaele Pinto Francesco lasciò la fabbrica e iniziò a collaborare con la CEAR di Bruno Siani. Contemporaneamente aprì un proprio laboratorio.
Fu questa l’occasione per slegarsi da lavori ripetitivi e per poter operare con maggiore libertà, iniziando a realizzare grandi vasi e piatti murali con figure femminili, immerse nei paesaggi della costiera amalfitana; ma anche delicate madonne stilizzate, con l’uso del solo verde ramina, su campiture nere ispirate ad originali di Guido Gambone.
Francesco decise di impegnarsi in una ricerca non episodica – da citare il totem realizzato nel 1997 – ispirata alla contemporaneità, e di andare oltre le raffigurazioni che derivavano dalla ceramica tradizionale. Determinanti i contatti con gli artisti che arrivavano a Vietri, spesso come partecipanti al premio “Viaggio attraverso la ceramica” o invitati da Bruno Mansi, Ugo Marano, Massimo Bignardi, Enzo Biffi Gentili, che si fermavano a lavorare nelle fabbriche dei Pinto, dei Solimene, nella Ri.Fa di Matteo Rispoli, nella Ceramica di Venceslao e Vincenzo Santoriello. Artisti quali Licata, Galliani, Chin, Moncada, Kodra, Kerassioti, Ben Slimane, Willburger, Barisani, Eokauren. Molti si intrattenevano anche nel minuscolo laboratorio di Francesco per essere aiutati nella realizzazione delle loro opere, data la loro scarsa dimestichezza con le tecniche dell’artigianato vietrese.
Determinante fu per Francesco l’arrivo a Vietri di Manuel Cargaleiro. Il grande artista portoghese, con fare scherzoso, ma senza molte cerimonie, lo invitò a “mettere da parte” tutto quello che era esposto nel suo laboratorio-negozio e a cominciare da capo. Fu un viaggio senza ritorno, che porterà Francesco ad allontanarsi dalla ceramica tradizionale e dalle rivisitazioni, delle quali fino ad allora si era mostrato convinto sostenitore. Creò uno stile che lui definisce “concettuale geometrico”, ricco di citazioni colte, realizzato con una infinità di variabili e, sorprendentemente, per un virtuoso del pennello, con smalti colorati stesi sulle superfici senza l’uso di questo strumento.
Le sue nuove creazioni furono subito molto apprezzate da architetti, collezionisti, ma anche da turisti e da semplici compratori locali, attratti dalla novità di quei coloratissimi pezzi esposti nella sua vetrina. Francesco Raimondi non poteva però rinnegare la sua valenza di grande virtuoso.
Il tema “Grottesca” scelto da Enzo Biffi Gentili per il premio “Viaggio attraverso la ceramica” del 2004 gli offrì lo spunto per esplorare un filone che gli apparve subito congeniale. La maestria di Francesco gli permette di affrontare trasfigurazioni sorprendenti, che maturano nel momento in cui inizia una rappresentazione legata ai miti mediterranei, resa inquietante per l’accentuazione grottesca nella quale lui stesso si autorappresenta, quasi a sottolineare la genesi delle sue visioni; in esse reminescenze tramandate si mescolano con figure ammaliatrici contemporanee, che ci appaiono affatto rassicuranti nel loro essere effimere e sostituibili.
La natura vulcanica di questo artista non consente di capire se questa introspezione guiderà le sue opere future. Possiamo solo osservare che la grande forza espressiva delle opere grottesche rappresenta mirabilmente l’inquietudine e il disorientamento del nostro tempo